Nagori: la nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato

Ho appena terminato di leggere un piccolo libricino che ti consiglio se ami la letteratura giapponese e le riflessioni sul concetto di stagionalità, che s’intitola proprio “Nagori” di Ryoko Sekiguchi edito da Einaudi.

«Quando si parla di cibo la questione delle stagioni è di primaria importanza. Che si debbano utilizzare e consumare prodotti di stagione va da sé. Ma che cosa è, per l’appunto, un prodotto “di stagione”? Il prodotto così come lo troviamo al mercato? Quando compare per la prima volta nell’arco dell’anno; e in quale regione? Qual’è la distanza che un frutto può percorrere perché si possa considerare “di stagione”? I tuberi e gli agrumi che si conservano per mesi, a che punto del loro ciclo vitale non sono più “di stagione”?»

Esistono tre termini diversi per descrivere lo stato di stagionalità di un alimento: hashiri (primizia), sakari (piena stagione) e nagori (ultimizia, se così si può chiamare).

Ogni età di un prodotto richiede un approccio diverso e un tipo di preparazione specifico: le verdure in hashiri è meglio consumarle crude, perché spesso sono piccole e tenere, mentre un prodotto in nagori è meglio consumarlo cotto (per esempio le mele di fine stagione sono più morbide e meno succose, perfette per essere trasformate attraverso la cottura).

Si è spesso cercato di imbrigliare il concetto di stagionalità in schemi fissi e immutabili nel tempo, ma le stagioni non sono così: l’associazione di una verdura o di un frutto a una determinata stagione non è un concetto statico ben definito, ma varia a seconda della regione in cui ci si trova e soprattutto varia al mutare delle condizioni climatiche.

Prodotti che riteniamo di stagione sono in realtà stati raccolti durante la stagione precedente, come per esempio le zucche che si iniziano a raccogliere in estate e si fanno seccare quando ancora le temperature lo consentono, per poi essere conservate per tutto l’inverno.

Prima dell’avvento del frigorifero paradossalmente era normale nutrirsi di prodotti “fuori stagione”: esisteva un’arte di fermare il tempo rappresentata dalle tecniche di conservazione, come la fermentazione e l’essiccazione, che erano una garanzia di disponibilità di cibo anche nei periodi difficili e di scarsità come la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.

Sebbene siamo circondati da una temporalità ciclica, che rispecchia il ritorno annuale delle stagioni che si susseguono, l’essere umano vive una temporalità lineare e nella costante incertezza di poter assaggiare di nuovo un determinato frutto l’anno successivo: «Signorina, io sono molto più anziano di lei, e non so se potrò assaggiare questo ortaggio il prossimo anno» disse lo chef Mitsuo Fujinaga all’autrice servendole un piatto di verdure ormai fuori stagione.

Un frutto o una verdura in nagori rappresentano un momento di nostalgia per l’imminente partenza di quel prodotto, fino al nuovo incontro l’anno successivo e così lo assaporiamo gelosamente, quasi a voler custodire il suo sapore per prolungare il suo gusto. 

Riflettere sulle stagioni diventa così un modo per non dare nulla per scontato, per vivere il presente senza dimenticare il passato e con la speranza che il futuro porterà con sé una nuova stagione da vivere appieno per poi lasciarla andare di nuovo.

 

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